Der Begriff der Toleranz hat manchmal eine negative Bedeutung, denn, wie Norberto Bobbio argumentierte, bedeutet Toleranz im negativen Sinne die Fähigkeit, etwas zu ertragen, das schädlich sein könnte.
Wir wollen jedoch von einem positiven Aspekt des Begriffs “Toleranz" handeln: die religiöse Toleranz. Die religiöse Toleranz ist die Bedingung, unter der die Überzeugungen einer oder mehrerer Religionen innerhalb einer Nation erlaubt werden. In Europa wurde die Idee der religiösen Toleranz im 16. Jahrhundert von humanistischen Intellektuellen eingeführt; die ersten waren Erasmus von Rotterdam und Thomas More, die die Harmonie zwischen den christlichen Konfessionen behaupteten. Es gibt in der vergangenen Geschichte einige bekannte Beispiele der Toleranz und Religionsfreiheit. Die Mailänder Vereinbarung oder auch Toleranzedikt von Mailand, erlässt im Jahr 313 vom römischen Kaiser Konstantin der Große, ist beispielsweise ein perfekter Beweis der Toleranz im religiösen Bereich. In der Tat erkannte dieses Edikt das Christentum wie religio licita, oder auch gesetzliche Religion, an. Deshalb wurde die neue Religion neben den traditionellen römischen Kulten akzeptiert. Ein anderes historisches Beispiel von so genanntem Toleranzedikt ist das Edikt von Nantes, erlässt im Jahr 1598 in Frankreich vom französischen König Heinrich IV. von Navarra. Dieses berühmtes Edikt gewährleistete den Hugenotten Bürgerrechte und Freiheit. Ein zeitgenössisches und sehr interessantes Beispiel der religiösen Toleranz ist das Sultanat Oman, wo alle Religionen ihre eigenen Stätte haben und respektiert werden. Außerdem ist dieses Sultanat gegen Gewalt, deshalb ist das Sultanat der arabischen Koalition bei den Zusammenstößen zwischen Jemen und Syrien nicht beigetreten und ist ein Vermittler im Dialog zwischen Ost und West geworden. Battaglia Giulia e Semperboni Ilaria.
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L'illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l'incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro. Colpevole è questa minorità, se la sua causa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi di essa senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Questo dunque è il motto dell'illuminismo. Con queste prime sferzanti frasi esordisce Immanuel Kant nella sua celeberrima risposta alla domanda: “Che cos’è l’illuminismo?”; allo stesso modo, Gotthold Ephraim Lessing cerca di svincolarsi dai rigidi dettami poetici al fine di permettere ai suoi lettori di sviluppare e perfezionare il senso critico, insito in ognuno di noi. Nel complesso intreccio di relazioni che intesse la trama di Nathan der Weise è di fondamentale importanza comprendere l’ambientazione estremamente particolare: Gerusalemme, città veicolare delle tre grandi religioni monoteiste, ovvero il cristianesimo, l’ebraismo e l’islamismo. Mentre, per quanto riguarda il tempo, le azioni si svolgono durante la Terza Crociata, quella presunta guerra “santa” (un ossimoro intrinseco), durante la quale i templari cercano invano di liberare la città santa dalla presenza musulmana. Come si evince dal titolo stesso, Nathan, il protagonista del libro è considerato da tutti un uomo estremamente saggio; la descrizione che Lessing fornisce di Nathan, un ebreo, è atipica, dimostrando così, già dall’inizio, il suo forte messaggio di tolleranza. Un altro importante personaggio è un templare, l’unico superstite di un gruppo di cavalieri cristiani; quest’ultimo, dopo aver visto una casa in fiamme, decide, senza alcuna esitazione, di entrare nella suddetta dimora, salvando in questo modo una giovane fanciulla: Recha, figlia adottiva cristiana di Nathan. Saladino, altro personaggio interessante e di estrema importanza nel contesto dell’opera, oltre che figura storica realmente esistita, concede la grazia al templare in virtù della somiglianza dello stesso con suo fratello Assad, scomparso ormai da tempo. Ed è proprio con Saladino che Nathan, l’ebreo saggio ed estremamente lungimirante per antonomasia, discorre su quale sia, tra le tre dominanti a Gerusalemme, la religione monoteista più vera ed autentica. L’episodio si va a collocare nel terzo atto del dramma: il sultano illuminato mette Nathan alla prova, domandandogli quale delle tre grandi religioni monoteiste (ebraica, cristiana ed islamica) sia, a suo dire, la migliore in assoluto, nel tentativo, nemmeno troppo velato, di testare il livello di saggezza del mercante. L’ebreo, dimostrando un acutissimo spirito di osservazione, evita prontamente il tranello, dando prova del proprio buonsenso con una breve parabola, la cosiddetta Ringparabel in tedesco, la parabola dei tre anelli. In breve: vi era una volta in Oriente un uomo che possedeva un anello, il quale aveva lo straordinario potere di rendere grato a Dio e agli uomini chi lo portasse con fiducia. Non volendo che il prezioso monile finisse nelle mani di qualcuno estraneo alla sua casa, l’uomo lo donò al figlio più amato e lasciò scritto che tale tradizione si perpetrasse nei secoli. Tale usanza venne in effetti rispettata da tutti i capifamiglia, sino al momento in cui uno dei suoi discendenti non ebbe tre figli e questi erano talmente obbedienti verso di lui, che egli non poteva fare a meno di amarli tutti in egual misura. Egli pertanto promise, in vita, l’anello a tutti e tre e così, prima di morire, fece costruire due copie identiche e diede ad ogni figlio un anello. I tre anelli erano dunque totalmente indistinguibili l’uno dall’altro ed era impossibile provare quale fosse quello autentico, così come è impossibile, per noi, determinare quale sia la vera fede. I tre fratelli, dunque, litigarono e si recarono da un giudice per risolvere la diatriba, in quanto ognuno dei tre pretendeva di essere il signore del casato. Il giudice, uomo modesto ma incredibilmente saggio, lesse il gesto paterno come un grande ed inestimabile atto d’amore e consigliò loro di agire come se ognuno di essi avesse il vero anello, aiutando le proprie virtù naturali con carità e devozione a Dio. Il giudice, infine, invitò i discendenti dei tre fratelli a tornare dopo mille e mille anni in quel tribunale, quando un suo successore, sicuramente più saggio di lui, avrebbe preso il suo posto sul seggio e sarebbe stato in grado di fornire una risposta alla questione. Lessing, dunque, con questa celebre e breve parabola, ci esorta ad accettare la pluralità delle fedi e a celebrare senza timore la tolleranza religiosa, senza disprezzare le altre religioni, in un messaggio di amore e rispetto che è attuale oggi, tanto quanto lo era nel 1779 (anno di pubblicazione dell’opera). In questo pertanto consiste la saggezza di Nathan, ampiamente riconosciuta dallo stesso Saladino: non bisogna elevare una delle tre religioni rivelate a fede più vera, ma è fondamentale riconoscerle tutte come portatrici di un monito d’amore, come un invito ad operare nel bene e ad accettare le diversità altrui senza distinzioni, rifiutando il fanatismo (rappresentato dalla figura del patriarca) e tentando di impiegare la propria vita e le proprie capacità al servizio di sè stessi e degli altri. Il messaggio di tolleranza di Lessing, inoltre, non si limita e non si chiude semplicemente sulla parabola dei tre anelli, ma ispira tutta l’opera, da cima a fondo, dal momento che tutti i protagonisti si riscoprono, infine, parte di una medesima grande famiglia, pur appartenendo a tre differenti religioni. Recha ed il templare, infatti, si riscoprono fratelli, separati alla nascita e infine ricongiunti presso la corte del Sultano; il templare scopre di essere nipote di Saladino, figlio di suo fratello Assad, che era fuggito in Occidente, dopo essersi innamorato di una cristiana; infine Recha, nata come cristiana, è stata invece adottata da Nathan, un ebreo, e cresciuta come un’ebrea lei stessa, in ricordo dell’amicizia che legava il padre biologico, cristiano, e quello adottivo, ovvero Nathan, di fede ebraica. Tramite lo svelarsi di tutti questi legami di parentela accuratamente celati al lettore, infine, si palesa l’assurdità delle distinzioni e dell’intolleranza religiosa, senza la quale questa grande e collettiva famiglia può finalmente riunirsi in un abbraccio dopo lunghi anni di separazione. Un altro tema fondamentale del romanzo è quello riguardante la devozione a Dio, che in tedesco si traduce con un’unica parola “Ergebenheit”. Ci sono voluti ben 217 anni, quando nel 1996 Friedrich Niewöhner l'ha menzionata in un articolo di giornale della Casa Bianca, per capire che la parola islam, come a Lessing era già ben noto, è una parola araba che significa devozione a Dio. È sorprendente notare che solo nella tradizione musulmana la formulazione ha davvero una traduzione letterale; Lessing, esperto conoscitore del linguaggio, dimostra di essere al corrente del significato della parola islam, in quanto, in una della sue note, egli scrisse che significava lasciare la parola alla volontà di Dio. Si può quindi presumere che, usando questa parola, l’autore desideri intenzionalmente fare riferimento all’Islam. Facendo ciò, Lessing valorizza teologicamente e culturalmente la cultura islamica, cercando di rimuovere quei pregiudizi (presenti ancora oggi) in merito ai musulmani. Gotthold Ephraim Lessing è dunque, a tutti gli effetti, un sostenitore e divulgatore della tolleranza, a trecentosessanta gradi. In conclusione, in un mondo come il nostro, in cui tutti cerchiamo costantemente di dare un senso alle nostre esistenze, trovando una via per la felicità, ma la tempo stesso comprendendo e scoprendo quanto si discosta da noi, Lessing ci invita ancora oggi a riunirci tutti insieme in un grande abbraccio, come quello della famiglia ritrovata alla fine della sua opera, per celebrare la coesistenza pacifica che lui ci mostra come assolutamente possibile, non solo tra differenti culti, ma tra modi di vivere e mondi differenti che risultano alla fine uniti, non separati, con le loro singole unicità. Ilaria Semperboni e Ambra Roggerini Deutschland ist ein säkularer Staat und schützt daher die Religionsfreiheit. Nach dem vierten Artikel des deutschen Grundgesetzes sind die Freiheit des Glaubens und des Gewissens unverletzlich. Es gibt keine Staatsreligion und alle können entscheiden, an welcher Religion zu glauben.
In Deutschland gibt es deshalb keine religiöse Diskriminierung. Um ein Beispiel anzuführen, sind zwei Mitglieder des Bundestags islamischen Glaubens, ein Abgeordneter gehört der russisch-orthodoxen Kirche und weitere sind Atheisten. Aus diesem Grund spielt die religiöse Toleranz eine wichtige Rolle, um ein friedliches Zusammenleben unter Abgeordneten zu garantieren. Ein originelles Zimmer des Reichstagsgebäudes ist der Religionsraum, besser gekannt als Andachtsraum, den der düsseldorfer Architekt Günther Uecker entworfen hat. Dieser Raum ist als überkonfessioneller Andachtsraum konzipiert, der sich dem Dialog mit allen Religionen öffnet. Deshalb ist er ein perfektes Beispiel der religiösen Toleranz des deutschen Staates. Dort kann man ein Kruzifix, aber auch Objekte von anderen Religionen, wie zum Beispiel einen Gebetsteppich der Muslimen oder auch einen Armleuchter für die Juden finden. Diese liturgischen Gegenstände befinden sich in einer Wandvitrine im Vorraum. Während der sogenannten Sitzungswoche klingen die Glocken des Kölnsdoms, die registriert sind, jeden Donnerstag und Freitag um 8:35 und sie fordern die Abgeordneten zu einer Überlegung auf. Das heißt, dass alle dort frei beten können und wenn man Atheist ist, kann man dort Zeit verbringen, um einfach zu überlegen. Als wir in diesen Raum des Reichstagsgebäudes reinkamen, haben wir ein starkes Gefühl der Freiheit erlebt. Unsere Führung hat uns erklärt, dort seien alle Menschen frei, ihren Glauben zu äußern. Wenn man christlich ist, kann man ein kleines Kreuz mitnehmen und damit beten. Wenn man Muslim ist, kann man einen Teppich nehmen und so weiter mit allen Religionen. Eine nach Osten gerichtete Treppenstufe weist Anhängern der drei monotheistischen Weltreligionen (Judentum, Christentum und Islam) den Weg in Richtung Jerusalem und Mekka. An den Wänden hängen viele zeitgenössische Gemälde, die in unseren Augen den Gedanken fördern . Wir haben diesen Raum erstaunlich gefunden, weil wir nie einen so demokratischen Raum anderswo gesehen haben. Berlin ist das beste Beispiel der Freiheit und Offenheit über alle Aspekte, vor allem über den religiösen Aspekt. Wir konnten das bemerken, als wir auf Klassenfahrt dort waren. Jeden Tag haben wir gesehen, wie zahlreiche Kulturen in einer einzigen modernen Stadt friedlich zusammen leben können. Der Religionsraum, wo alle ungehindert nachdenken oder beten können, ist ein Beweis dieser Offenheit der Mentalität in Berlin und in Deutschland. Shari Brignoli, Valeria Zanotti, Sofia Mazza, Ambra Roggerini e Stefania Robecchi . Nazi-Deutschland nutzte die Olympischen Spiele 1936als Propagandamittel. Die Nazi wollten ein neues, geeinteres und mächtigeres Deutschland darstellen. Sie wollten aber zur gleichen Zeit sowohl die antisemitischen und rassistischen Ideen des Regimes als auch den begehrten Nationalismus verdecken. Im Jahr 1931 wurde Berlin vom Internationalen Olympischen Komitee als Sitz der Olympischen Sommerspiele gewählt. Zum ersten Mal in der Geschichte der Olympischen Spiele gab es viele Versuche, die Olympischen Spiele zu boykottieren, weil es im veranstaltenden Land viele Verletzungen der Menschenrechte gab. Diese Wahl, die Olympische Spiele in Berlin zu organisieren, wurde als eine gute Gelegenheit betrachtet, damit Deutschland seine Macht zeigen konnte, um die frühere Niederlage während des 1. Weltkrieges einzulösen. Unter diesen Umständen wurde nämlich das Konzept der REINEN RASSE wiederaufgenommen, das zum ersten Mal von Tacitus in seinem Werk “Germania” (98 n.C) benutzt wurde. In seinem Text beschrieb Tacitus die Stärken und Schwächen der einheimischen Germanen. Diese Schrift wurde später das Vademecum Hitlers, dessen Ziel die Verherrlichung der arischen Rasse war. Nach der Machtergreifung des Führers Nazipartei, wurde 1933 die schon fragile Demokratie eine Diktatur, die bald Juden, Roma, politische Gegner und andere Minderheiten verfolgt hätte. Nazis Bedarf, alle Aspekte des deutschen Lebens zu kontrollieren, verbreitete sich auch im Sport. Eine Frage, die sich sofort aufdrängt ist: Dienen die Bilder, die in den 30ern Jahren verbreitet wurden zur Verbreitung der arischen Rasse als die beste und mächtigste Rasse der Welt? Die deutschen Künstler realisierten Statuen und Skulpturen, die die typischen arischen Gesichtszügen und heldenhafte Haltungen darstellten. Diese Darstellungen wollten auch die Wichtigkeit der körperlichen Kraft betonen, diese Kraft war nämlich eine wesentliche Anforderung, um in der Armee zu kämpfen. Die Olympischen Spiele in Berlin wurden als Feier der Nazipartei betrachtet. Um die politische Macht Deutschlands zu zeigen wurden viele Paraden und Tänze organisiert und daher Milliarden Deutscher Mark ausgegeben. Die Athleten wurden auch vorsichtig vorbereitet. Die endgültigen Sportergebnisse könnten als Beweis der Überlegenheit der arischen Rasse gelten. Viele Personen in den Vereinigten Staaten verlangten , die Nazistischen Spiele zu boykottieren. Als Hitler die Macht ergriff, war Deutschland schon eine repressive Diktatur. Der Boykott war erfolglos, aber trotzdem wurden viele Artikeln von internationalen Zeitschriften veröffentlicht und sie wollten die zahlreichen Erfolge der afroamerikanischen Athleten zeigen. Ein kennzeichnendes Beispiel war Jesse Owens. Serena Kathrin Lanfranchi Die Religionen spielen in unserer Gesellschaft, in den Familien, Schulen und den Betrieben nach wie vor eine prägende Rolle - nicht mehr nur eine oder zwei Religionen, wie über Jahrhunderte üblich, sondern in einer großen Vielfalt. Die sich daraus ergebende Verschiedenheit an Haltungen und Lebensentwürfen gehört in unserer globalisierten Welt zum Alltag. Seit der Reformation leben die katholische und die evangelische Konfession in Deutschland ziemlich friedlich nebeneinander. Die katholische Kirche hat rund 24 Millionen Mitglieder in 12.000 Gemeinden und die evangelische Kirche hat über 22 Millionen Mitglieder. In Deutschland wohnen auch 100.000 Juden und 4 Millionen Muslime. Außerdem stellen alle anderen Religionsgemeinschaften ca. 1 % der Bevölkerung, davon 270.000 Buddhisten, 100.000 Hindus, 10.000 Sikhs. Die Toleranz ist das Schlüsselwort, um in Frieden zu leben. Deutschland und vor allem Berlin möchte ein Projekt verwirklichen, um die Weltreligionen zu versammeln. In Berlin entstand ab 2019 etwas weltweit Einmaliges: Juden, Christen und Muslime bauen gemeinsam ein Haus, unter dessen Dach sich eine Synagoge, eine Kirche und eine Moschee befinden. Dort können ein Pastor, ein Imam und ein Rabbi beten. Das Projekt ist sehr teuer, 8,8 Millionen Euro sind zwar schon zusammengekommen, benötigt werden aber 43 Millionen. Trotzdem ist das “House of one” mehr denn je wichtig, weil Christen, Muslime und Juden im Namen der Religion kämpfen. Etwa im Nahen Osten, wo der islamistische Terror tausende Menschenleben kostete und auch selbst in Berlin, wo am 19. Dezember 2016 zwölf Menschen auf dem Weihnachtsmarkt an der Gedächtniskirche ermordet wurden, weil ein Lastwagen absichtlich in die Menge raste. Nach dem Anschlag beteten zusammen ein evangelischer und ein katholischer Bischof, ein Imam und ein Rabbiner. Die initiative hat die Idee des “House of one”,die vielleicht auch vom berühmten Theaterstück “Nathan der Weise” von Gotthold Ephraim inspiriert wurde. Das “House of one” ist jetzt im Bau auf dem Petriplatz in der Mitte Berlins, im Herzen der Stadt: . Ein Haus für alle!
Giorgia Arizzi La costruzione di muri e barriere nel mondo è incrementata in seguito agli attacchi dell'11 settembre alle Torri Gemelle.
Nei dodici anni che hanno separato il 1989 dal 2001 è parso che ogni muro, fisico e non, fosse destinato a crollare: Internet, il mondo a portata di mano, il diffondersi delle democrazie liberali e del libero commercio sembravano segnare la fine di ogni barriera. Invece oggi siamo tornati a costruire muri e a innalzare barricate; d'altronde, quando esistono forti divisioni sociali, politiche, culturali ed economiche, quelle fisiche non possono fare altro che seguire. Proprio la globalizzazione,la quale comporta apertura e interdipendenze reciproche, ha evidenziato la distinzione fra un "noi" e un "loro" e la necessità di porre una barriera nel mezzo. Un muro che rafforza questi concetti, alimentando il senso di identità,un bisogno che torna a farsi sentire nel momento in cui il concetto di identità diventa troppo ampio da includere il globo. Chiaramente non si tratta semplicemente di barriere simboliche,tutt'altro. Come abbiamo visto sono spesso luoghi dove si consumano violenze e repressioni. Nella maggior parte dei casi vengono costruiti affinché la gente non possa migrare da situazioni di povertà e instabilità a più benestanti, "minacciando" in quel modo un equilibrio e una sicurezza che sempre più si ha la percezione di dover difendere da elementi esterni. I flussi migratori sono quindi diventati la maggiore causa per la quale i governi innalzano muri. Secondo la maggior parte degli studiosi in materia, tuttavia, i muri non hanno mai funzionato nel trattenere le migrazioni. Una persona che ha una valida motivazione per fuggire da un luogo, se vede chiudersi una via ne troverà sempre un'altra. Chiaramente, più le ragioni per lasciare il proprio paese sono forti, più si cercherà a tutti i costi un modo per allontanarsene, nonostante i pericoli che ciò comporta. Nick Buxton, ricercatore al Transnational Institute, sostiene che le persone troveranno sempre un modo per scavalcare un muro: un'azione che può rivelarsi rischiosa, ma che non tratterrà i flussi migratori,dunque non ha alcun senso erigere barriere. Tuttavia questa è un'argomentazione che, per quanto sia stata comprovata, non analizza le motivazioni del perché quel muro è stato eretto. Queste ultime non vanno cercate solamente nel divario fra ricchezza e povertà o fra guerra e sicurezza: si tratta di un'ansia globale, che non appartiene solo al Nord benestante del mondo. La percezione di insicurezza e conflitti, di cui barriere e recinzioni non sono che la naturale riproduzione materiale, è generalizzata ed è sfociata nell'universo politico. L'ideale di un mondo senza confine e la fine del concetto di nazione inteso come lo era fino ad allora hanno generato una reazione populista che ha provocato l'ascesa delle destre più radicali da Ovest a Est del globo. Sono quindi nati movimenti di estrema destra che hanno fatto del paradigma della sicurezza il proprio cavallo di battaglia politico, generando un circolo vizioso: più fortifichiamo e militarizziamo i confini per sentirci al sicuro, più verrà percepito un senso di insicurezza che nemmeno i muri possono contenere. Elisa Grumelli L’ideologia nazista può essere considerata come emblema dell’intolleranza, manifestatasi contro quelle categorie che secondo la teoria hitleriana avrebbero rovinato la purezza ariana della società tedesca. È infatti tristemente nota la barbarie consumatasi nel corso della seconda guerra mondiale nei campi di concentramento voluti dalla Germania nazista. Diversi sono i musei e i memoriali che ricordano le vittime della tragedia della Shoah, ma le pietre d’inciampo rappresentano di certo una particolare iniziativa di arte urbana che incontra la memoria storica, dando origine ad un museo a cielo aperto.
Le pietre d’inciampo, o Stolpersteine nella versione originale in tedesco, costituiscono una vera e propria opera d’arte diffusa su gran parte del tessuto urbanistico europeo, poiché si tratta di veri e propri sampietrini ricoperti da una piastra d’ottone sulla quale sono incisi non solo il nome e la data di nascita della persona a cui sono dedicate, ma anche la data ed il luogo del suo decesso. Infatti, lo scopo di queste pietre, è proprio quello di ricordare tutte le vittime dell’Olocausto, indipendentemente dall’etnia o dalla religione, dedicando loro una piccola parte di terreno appena al di fuori delle loro ultime abitazioni poco prima di essere deportati. L’ideatore di questo progetto è un artista tedesco di nome Gunter Demnig, che, a partire dal 1992, ha provveduto ad installare all’incirca 50.000 pietre d’inciampo in quasi tutti i Paesi europei che durante la seconda guerra mondiale furono occupati dal regime nazista e anche in Svizzera, Finlandia e Spagna. Lo scopo dell’iniziativa è quello di ridare individualità, attraverso i dati riportati sulla piastra, a tutti coloro che furono ridotti ad un semplice numero. Per questo l’espressione “d’inciampo” non ha un significato fisico, bensì visivo e mentale, poiché porta a riflettere anche chi si imbatte in modo del tutto casuale in una di queste pietre. Alcune pietre d’inciampo sono state collocate anche in Italia e noi abbiamo avuto la fortuna di poterne ammirare all’incirca una trentina a Roma, durante un viaggio estivo nella capitale. Sicuramente come molti altri turisti, anche noi siamo “inciampate” in modo del tutto casuale su queste pietre, ma esse hanno subito catturato la nostra attenzione, tant’è che una volta tornate a casa abbiamo cercato su internet qualche informazione sulle vittime che risiedevano in via della Madonna dei Monti, luogo di collocazione delle targhette. Con grande sorpresa abbiamo scoperto che una pietra era dedicata ad una delle più giovani vittime dell’eccidio alle Fosse Ardeatine, Franco Di Consiglio, un giovane macellaio ebreo fucilato all’età di soli 17 anni per motivi razziali. Le pietre d’inciampo sono state, tuttavia, anche oggetto di numerose polemiche da parte di alcuni esponenti della comunità ebraica. Charlotte Knobloch, la presidente della comunità ebraica di Monaco e dell’Alta Baviera, si batte dal 2004 per confinare le Stolpersteine alle abitazioni private, ritenendole offensive in quanto «possono essere bersaglio di sputi, sporcizia, graffi, escrementi animali o essere oggetto di gesti offensivi». Inoltre, Knobloch ritiene che le vittime andrebbero ricordate e non calpestate. Anche Daniel Killy, capo della comunità ebraica di Amburgo, si schiera contro le creazioni di Denmig, accusando quest’ultimo di aver lucrato sulla morte di milioni di persone. Al contrario, il presidente della comunità ebraica Josef Schuster difende le pietre d’inciampo e si dichiara in disaccordo con la scelta della comunità monachese. Ovviamente ognuno può dare la propria interpretazione a queste originali opere d’arte che mirano a mantenere il ricordo di tutti i deportati nei campi di concentramento. A nostro parere, l’“inciampo emotivo” in queste piccole pietre può contribuire a tenere viva la memoria delle vittime del nazismo, invitando tutti noi che “viviamo sicuri nelle nostre tiepide case e tornando a casa a sera troviamo cibo caldo e visi amici” (Primo Levi) ad una riflessione, proprio come è successo a noi a Roma. Anche nel piccolissimo paesino di Premolo, nell’alta Valle Seriana, l’artista tedesco Gunter Demnig ha realizzato una pietra d’inciampo, l’unica di tutta la Bergamasca. Il 17 gennaio 2016 l’artista si è direttamente recato in loco per dedicare a don Antonio Seghezzi il suo “quadrato di ottone”. Don Seghezzi nacque a Premolo nel 1906 e nel 1935, a soli 29 anni, fu inviato come cappellano militare in Eritrea; congedato dopo due anni, ritornò a Bergamo, dove divenne un punto di riferimento per la gioventù dell’Azione Cattolica. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, Don Seghezzi si impegnò ad aiutare a fuggire i ragazzi della Resistenza, garantendo loro, sia spiritualmente, sia concretamente, un’enorme assistenza. I nazifascisti lo scoprirono e dal 25 ottobre, cominciò ad essere ricercato. Non trovandolo, i nazifascisti organizzarono una rappresaglia contro l’Azione Cattolica e la Chiesa di Bergamo; alla luce di quest’infausta situazione, don Seghezzi decise di consegnarsi liberamente, fu immediatamente deportato e rinchiuso nel carcere di Monaco Di Baviera. Dopo essere stato trasferito nel campo di lavoro di Klashelm, fu nuovamente trasferito a Lessingen, dove iniziò a manifestare l'emottisi (una malattia polmonare). Morì nel 1945, a causa di questa sua malattia, nell’ospedale da campo di Dachau. Il 27 gennaio 2020, giornata della memoria, il consiglio comunale di Bergamo ha votato unanime per collocare ulteriori pietre d’inciampo, al fine di ricordare le vittime dell’olocausto. Shari Brignoli, Ambra Roggerini e Valeria Zanotti “Vivere in modo autentico, cosa mi ha insegnato la vicenda di Giacomo Matteotti” “Io il mio discorso l’ho fatto. Ora, a voi preparare il discorso funebre per me.” Questa è una frase emblematica passata alla storia per uno degli attentati più efferati mai commessi in Italia, ovvero quello che coinvolse Giacomo Matteotti. Nominato a segretario del Partito socialista unitario, Matteotti sentì la necessità di opporsi al fascismo e fu peraltro uno tra i pochi che intuì fin dall’inizio che in Italia si sarebbe instaurata una dittatura. Le elezioni nazionali del 1924 portarono alla vittoria del cosiddetto “listone”, ovvero un’alleanza che Mussolini strinse con altri piccoli partiti per assicurarsi la vittoria. Il Duce ottenne una percentuale di voti così alta da far scattare il premio di maggioranza previsto dalla nuova legge elettorale. Ciò scatenò atteggiamenti di diffidenza ed indignazione da parte di numerosi esponenti politici dell’epoca, ma solo uno ebbe il coraggio di sollevare apertamente gravi dubbi sulla legalità di queste elezioni: il segretario Matteotti. Così, il 30 maggio 1924, tenne un discorso provocatorio alla Camera nel quale, senza mezzi termini, accusò il presidente del Consiglio ed i fascisti delle violenze e delle irregolarità commesse sia durante la campagna elettorale che nella stessa consultazione, contestandone la regolarità e chiedendone l’invalidazione. Le sue parole non vennero di certo tollerate dal nuovo dittatore che ordinò l’uccisione dell‘impavido segretario: il 10 giugno 1924 egli trovò ad attenderlo sotto casa un’auto scura; Amerigo Dumini ed altri fascisti lo trascinarono all’interno e lo uccisero sull’auto in corsa, pugnalandolo al petto e abbandonando poi il cadavere nella “macchia della Quartarella”, un bosco a pochi chilometri da Roma. Fu ritrovato soltanto il 16 agosto dello stesso anno. Credo personalmente che la posizione assunta da Matteotti possa essere definita un pubblico atto d’accusa, o meglio, una denuncia di illegalità, forse un ultimo sforzo per evitare che il fascismo prendesse definitivamente il sopravvento, sovvertendo qualsiasi logica e forma di democrazia. In una dittatura l’eliminazione delle cosiddette “voci fuori campo”, voci di opposizione e presa di posizione, pare quasi una caratteristica contingente, intrinseca alla natura stessa di questa, per così dire, “forma di governo”. Ciò è dimostrato da tutte le dittature del secolo scorso e non: Hitler in Germania, Stalin e l’anno del Terrore (1937) sono gli esempi più eloquenti nell’immaginario collettivo, tuttavia la lista potrebbe essere molto più lunga ed articolata. Matteotti ricorda il pensiero del filosofo tedesco Heidegger che ho apprezzato particolarmente: come direbbe quest’ultimo, il segretario del Partito socialista unitario ha deciso di vivere la propria vita in modo autentico, di crescere e costituire il proprio percorso politico ma soprattutto personale attraverso le scelte che permettono all’uomo di imboccare la strada dell’autenticità. Non cedette mai alla tentazione di lasciare tutto, nemmeno quando comprese di essere isolato all’interno del proprio partito. (La solitudine di Matteotti, Gianpaolo Romanato (Storia Contemporanea - Università di Padova). Sorge spontanea la domanda: bisogna porre dei limiti alla libertà personale di espressione? Un esempio di assoluta libertà è la Costituzione americana promulgata il 21 giugno 1788. Gli Stati Uniti fanno della libertà di espressione un principio fondante della democrazia. Infatti, nel Primo emendamento viene dichiarato: «Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione; o che limitino la libertà di parola, o di stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea e di fare petizioni al governo per la riparazione dei torti>>. Anche in Italia si arrivò a questo traguardo ma soltanto il 1 gennaio 1948 quando entrò in vigore la nuova Costituzione repubblicana, quasi duecento anni dopo! Sia la vicenda di Matteotti un monito per tutti noi: egli, come viene definito dallo storico Sabbatucci, fu un personaggio dal grande carisma, la punta dell’opposizione contro l’omologazione, l’asservimento di idee antidemocratiche ed a sfavore della libertà personale. Era consapevole di pagare un caro prezzo per tutto ciò, sapeva che la propria vita sarebbe stata messa a repentaglio ma forse, il valore dei propri ideali era più grande del valore della stessa. Matteotti credo volesse lasciare un segno, cambiare qualcosa e dissociarsi da “coloro che sono sospesi senza infamia né lode” (Dante, Inferno II, v.52). Sofia Mazza Il nuovo coronavirus è un nuovo ceppo di coronavirus che non era mai stato precedentemente identificato nell’uomo; il virus è stato segnalato per la prima volta a Wuhan, ovvero in Cina, il 31 dicembre 2019, dal medico cinese, anch’egli contagiato (e oggi deceduto), Li Wenliang. Sebbene la fonte del virus sia ancora ignota, sembra che il contagio avvenga entrando in stretto contatto con una persona malata. I sintomi più comuni includono febbre, tosse e difficoltà respiratorie; nei casi più gravi, l'infezione può causare polmonite, sindrome respiratoria acuta grave, insufficienza renale e persino la morte (prevalentemente in pazienti già debilitati). Attualmente, le persone contagiate sono circa 28 mila, di cui si registrano soltanto 525 decessi. Mentre queste “cifre” salgono vertiginosamente, con una previsione del picco ad aprile, è di cruciale importanza comprendere che dietro a quei “numeri” ci sono persone; persone in carne e ossa, con diritti e doveri, gli stessi che dovrebbero avere tutti i cittadini del mondo. Lo studente e rappresentante dell’Istituto Besta di Treviso Lorenzo Yu, ragazzo di origini cinesi, afferma: “Vedo le persone che ci schivano sui mezzi pubblici, che si mettono delle mascherine quando salgono dei cinesi sul treno o sull'autobus o che mandano qualche frecciatina. Ho sentito che secondo alcuni, non dovrei presentarmi a scuola nei prossimi giorni: questo solo per le mie origini”. La paura, regina del controllo delle masse, del diffondersi del coronavirus, oltre che essere divenuta quasi una psicosi, sta dunque provocando una serie di episodi di razzismo. L’ignoranza, che è molto peggio di un virus, si è ormai dilagata non soltanto nella sfera privata, attraverso insulti e malauguri, ma anche in quella pubblica e sociale; ne è un esempio lampante il cartello choc in un bar di Fontana di Trevi a Roma: «A tutte le persone provenienti dalla Cina non è permesso di entrare in questo posto». Durante le lezioni abbiamo discusso in merito a questi “fenomeni di razzismo” e siamo tutti d’accordo in merito al compito a cui ciascun membro dell’unica razza della Terra, ovvero quella umana, dovrebbe ottemperare: impedire che l’apprensione per la propria salute diventi un motivo per discriminare qualcun’altro. Ambra Roggerini |